L’uomo nell’alto castello

In un mondo alternativo in cui la seconda guerra mondiale è stata vinta da Germania e Giappone, le due potenze si dividono gli Usa e impongono la loro ideologia sedando con la violenza ogni tentativo di ribellione. La ricostruzione del nuovo continente è accurata: anni ’60 volutamente meno moderni di quanto siano stati in realtà, a sottolineare che un regime totalitario non favorisce lo sviluppo economico e sociale. Le due società, nazista e nipponica, sono rappresentate magistralmente, con una costruzione, anche ideologica e psicologica, tale da mettere i brividi al solo pensiero di cosa sarebbe potuto accadere se davvero le due potenze avessero vinto la guerra.
La storia si dipana durante le quattro stagioni intorno al ritrovamento di alcuni filmati che mostrano cosa sarebbe potuto accadere/cosa è accaduto, con la vittoria dell’Occidente: Juliana Crain combatte perché questi film possano diventare realtà. La storia si sviluppa su due binari, due mondi paralleli attraverso i quali i protagonisti, “i buoni” e “i cattivi”, si spostano cercando di piegare il corso della storia. Le vicende, più incalzanti in alcune stagioni e più lente in altre, tengono alta l’attenzione dello spettatore che vuole capire se il bene vincerà. Ma il punto è proprio questo: chi sono veramente i buoni? Tranne il Ministro Tagomi, che sembra l’unica anima davvero candida e che esce di scena troppo presto, gli altri protagonisti sono pronti a tutto, a ingannare, tradire, uccidere, pur di ottenere il proprio scopo. Quale fine vale tanto male? La serie è giustamente consigliata a un pubblico adulto.